martedì 25 ottobre 2016

Al giardino ancora non l'ho detto di Pia Pera

"Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo. Non me n'ero accorta. Era una zoppia quasi impercettibile, poco più di una disarmonia del passo, un ritmo sbagliato. A lungo non se ne comprese il motivo.(...) Morire non era più una speculazione intellettuale, stava realmente accadendo. Molto lentamente e prima del previsto. Lasciandomi forse il tempo di scrivere in presa diretta del giardiniere di fronte alla morte." (Pia Pera  Al giardino ancora non l'ho detto ed. Ponte alle Grazie, pag. 17)

Inizia così, dopo una breve premessa sulla scelta del titolo, il flusso di pensieri di cui si compone l'ultimo libro di Pia Pera. Un libro delicatissimo e spietato, nel quale l'autrice ci mette subito di fronte all'ineluttabile.
Non è certo facile parlare di malattia e di morte, soprattutto quando riguarda noi stessi, lei lo fa con coraggio, lucidità, grazia ed eleganza.
Non è, però, una lettura da affrontare a cuor leggero.
Alcuni ne hanno ricavato un senso di serenità, ma per me non è stato così. Anzi, quando Pia racconta il progredire della malattia, gli attacchi d'ansia nelle notti insonni, la perdita dell'uso delle gambe e con essa la dolorosa rinuncia alla propria libertà, ho dovuto interrompere la lettura per concedermi una distrazione. Non è possibile rimanere indifferenti alla narrazione di una malattia così terrificante, la sindrome del motoneurone: lentamente  ma inesorabilmente la capacità di movimento del corpo viene meno, rimangono intatte le facoltà cognitive. Prima un piede, poi la gamba, poi l'altra e poi le mani e le braccia, tutto intervallato da periodi in cui la malattia rallenta dando l'illusione di arrestarsi. Terribile. Così da un anno all'altro Pia non può più occuparsi dell'adorato orto-giardino che ci aveva fatto apprezzare ne L'orto di un perdigiorno. Il confronto tra la donna giovane, vitale e indipendente di allora e quella di adesso è dolorosissimo; lei, che in quel libro immaginava se stessa vecchissima, con il viso sorridente solcato di rughe, impegnata a zappare e potare.
 A preoccuparla è il destino del giardino e soprattutto di Macchia, la sua amata cagnolina. Il libro è dedicato a Nino e Macchia, i suoi cani.

pag. 41

Inizialmente la scrittrice spera in una guarigione e ci racconta con ironia le speranze e le delusioni date dai vari medici e guaritori ciarlatani che interpella. Purtroppo il miglioramento non avverrà mai e nel progredire della malattia Pia pensa all'eutanasia ed è assalita dai ripensamenti, dai dubbi su quello che è stata la sua vita, farà bilanci che condividerà con i lettori con sincerità toccante.
"Non ha senso rimpiangere ora vie non percorse. Tormentarsi immaginando che la vita avrebbe potuto essere più ricca. Avevo questa idea: vivere la pace e la serenità emancipandomi dal volere sempre di più, dal bramare ogni cosa. Era un ideale di frugalità, di opposizione all'avidità dominante. Desideravo un mondo meno lacerato da conflitti, ove si imparasse a sentirsi felici di quanto si ha, assaporarlo, apprezzarlo. Questa continua a sembrarmi un'aspirazione degna. (...) Fortuna che  un poco almeno ho avuto la disciplina di meditare, fortuna che un poco almeno sono andata contro la corrente: perché così, pur nella tempesta, pur nel collasso delle energie, non è escluso possa trovare un punto, non importa quanto minuscolo, di appoggio." (pp. 201-202)
E quando infine si ridurrà sulla sedia a rotelle, vedendo svanire per sempre la sua autonomia che tanto aveva ricercato nel corso di tutta la vita, riuscirà a mantenere comunque la sua libertà interiore, troverà un punto d'appoggio nella poesia, nella letteratura e nella muta contemplazione del suo giardino, amico fidato,  da sempre rifugio magico ricco di vitalità segreta.

È un libro che fa male e bene leggere. Avrei preferito non fosse stato scritto, avrei preferito continuare ad immaginare Pia e Macchia insieme, felici nel giardino. Ma sono contenta di averlo letto, perché è un libro ricco di pensieri sinceri e profondi, preziosi.

Pia e Macchia nel giardino

"Ringrazio, prima di addormentarmi, della vita che ho avuto, io che venivo dal nulla."
                                                                                                                                                          (p. 193)

giovedì 20 ottobre 2016

Colori di ottobre, fantasticherie e riflessioni sulle amicizie finite




Anche oggi la giornata è grigia. Un pioggerellina intermittente scende dal cielo ad inumidire la terra e a far marcire le foglie morte che già hanno cominciato a staccarsi dai rami.
Ma, nonostante il grigiore, in questi giorni l'autunno inizia a sfoggiare la sua livrea colorata, perciò mi piace portare la macchina fotografica quando esco, anche solo per fare delle banali commissioni, e fotografare qualche scorcio di natura, magari celato da un vecchio cancello, qui in città.




Mi accorgo che sto perdendo gli amici per strada.
Se dieci anni fa condividevamo tante cose, oggi abbiamo idee diverse su tutto o quasi. E io li sopporto a  fatica.
Come mai? Sono io ad essere cambiata, sono io che sto facendo emergere piano piano la vera me stessa. Ma anche la vita che ho scelto è differente dalla quella che hanno scelto loro: niente matrimonio, niente figli, niente lavoro stabile, niente eterno cordone ombelicale con i genitori sgancia-soldi; così è naturale che si arrivi a non avere più nulla da dirsi. Forse finirò a vivere come un'eremita nei boschi, e a ben guardare, questa era una mia antica aspirazione di bambina. La casetta di legno nel bosco.


Alle scuole elementari facevamo un'attività che si chiamava psicomotricità. Era la maestra Franca, carina e gentile, la ricordo ancora,  a condurre questo corso che si teneva un giorno la settimana, e a me piaceva molto perché, al contrario dell'educazione fisica (che odiavo) qui non c'erano giochi di squadra che potessero scatenare la competizione o definire chi fosse il più bravo a fare un esercizio; no, qui si lasciava correre la fantasia e si poteva sognare. Una volta la maestra Franca spense le luci e ci disse di chiudere gli occhi e immaginare di essere in un luogo dove stavamo bene. Nella mia mente prese forma l'immagine di una piccola casa fatta di legno, solitaria presenza in un bosco, di notte. Mi vedevo in una deliziosa cameretta, con un letto accogliente e sul comodino una candela accesa in una bugia di ceramica celeste. Non so capirne il motivo, ma questa rêverie mi diede un piacere immenso, a distanza di molti anni lo ricordo ancora.



Tornando alle amicizie,  ho l'impressione che non sia del tutto colpa mia: qualcuno di questi amici si è rincitrullito a forza di postare ridicole foto di se stesso su facebook e di fare shopping la domenica, nei centri commerciali.

Ho messo qualche pianta fiorita resistente al freddo sul terrazzo. È bello affacciarsi e vedere i colori, anche d'inverno.




Mi sono arrivati ieri, tramite corriere, due libri di Pia Pera. Ho iniziato la lettura de Al giardino ancora non l'ho detto, con un certo magone. Mi sta piacendo molto. Quando l'avrò terminato ne scriverò sul blog, per voi.



Per oggi è tutto, un caro saluto!

G.



giovedì 13 ottobre 2016

L'orto di un perdigiorno di Pia Pera

Ho terminato ieri sera di leggere L'orto di un perdigiorno - Confessioni di un apprendista ortolano.
L'ho  cercato nelle librerie, ma risultava introvabile e quindi l'ho preso in prestito dalla biblioteca. So che era in programma una ristampa e credo che infine lo acquisterò, perchè è uno di quei libri che mi piace leggere e rileggere, nel tempo.

Pia Pera, l'autrice, è scomparsa prematuramente nel luglio di quest'anno, ed è struggente sapere che la sua vita terrena si è conclusa proprio nel giardino di cui ne L'orto di un perdigiorno ci racconta la genesi.
Non ho potuto cancellare questo pensiero durante tutta la lettura del testo; non ho potuto evitare che un velo di malinconia e sgomento cadesse sulla lettura di un'opera che è stata scritta per infondere serenità. Già, perchè è questa la sensazione principale che mi è rimasta, alla fine.

Pia è una traduttrice, giornalista e docente universitaria, vive in città e corre tra una conferenza e l'altra, quando prende la decisione di tasferirsi definitivamente in un podere disabitato che ha ereditato, nella campagna lucchese. Ispirata dalle idee di un botanico-filosofo giapponese, Masanobu Fukuoka, vuole riportare in vita l'orto-frutteto-giardino che circonda la casa, abbandonato da anni, applicando i principi dell'agricoltura naturale e del non fare, teorizzati da Fukuoka. Scoprirà, con fatica, che non è semplice come sembra.
L'orto di un perdigiorno  non è un romanzo, non è un manuale di giardinaggio, è invece una sorta di diario che copre lo spazio temporale di un anno, da un autunno all'altro, in cui Pia ci racconta i suoi tentativi, spesso fallimentari, di coltivare; le sue scoperte, le sue riflessioni, che spesso esulano dall'argomento orto-giardino per approdare a considerazioni filosofiche sull'esistenza e sui libri che hanno influenzato la sua vita. È un'opera particolare, di cui mi sono innamorata.
Pia racconta in maniera mirabile le sue escursioni sul monte Pisano, alla ricerca di piante spontanee, in compagnia del cane Nino. Le brevi descrizioni dell'arrivo di un temporale venuto a interrompere l'afa estiva o del calare della sera sul giardino sono di una bellezza straordinaria, e sono le parti che mi hanno emozionata di più. Da tutto il testo traspare il grande amore che la scrittrice nutriva per il luogo che aveva scelto di salvare dall'oblio del tempo.

Pia Pera con Nino (Karmapress Photo)

Alla fine l'autrice riesce a coltivare le sue piante e a nutrirsi con i loro frutti per tutto l'anno; ammette di non essere riuscita quasi per niente ad applicare i principi di Fukuoka, che aveva tanto studiato. Desiderava una guida e durante il suo apprendistato come ortolana ne aveva avute più di una, ma il suo vero maestro si è rivelato lo stesso orto-giardino. Pia impara dalla natura e grazie allo stretto contatto con la terra,  scopre una felicità nuova, autentica, mai provata prima.

Questo libro mi ha ispirato molto e contribuisce a farmi sperare in un mio futuro cambiamento di vita.


Grazie Pia.





martedì 11 ottobre 2016

Torta delle Rose con uvetta - fornetto Versilia -


La Torta delle Rose è un dolce della tradizione mantovana, fatto con pochi ingredienti, ricco di burro e zucchero. Già in fase di cottura la torta sprigiona un profumo delizioso, uguale a quello che si sente a volte entrando in qualche buona pasticceria; appena sfornato è una goduria! Purtroppo, trattandosi di una pasta lievitata con il lievito di birra, non mantiene a lungo la morbidezza iniziale e il giorno dopo sembra da buttare; in realtà basta scaldarla un poco perchè  riacquisti la sua fragranza.


Questa torta mi riporta sempre alla memoria le grandi discussioni che si facevano in casa, quando ero bambina, tra mia mamma e mia nonna riguardo a come mantenere morbida la pasta per più giorni.
Mi facevano sorridere e non capivo cosa ci trovassero di tanto entusiasmante in questo dolce che a me non piaceva perchè il sapore sembrava quello del semplice pane spalmato di burro e zucchero, niente panna, cioccolato o creme...

La mamma e la nonna avevano "i periodi", cioè lassi di tempo, che andavano da un paio di giorni a qualche mese, in cui si fissavano su una particolare ricetta che dovevano discutere, analizzare, sperimentare fino allo sfinimento, a tutti i costi.
 Ci fu il periodo della conserva di pomodoro; e allora ricordo cassette e cassette di pomodori maturi cotti in pentoloni d'acqua bollente e poi passati in un marchingegno montato sul tavolo da campeggio nel cortile, in piena estate con trentacinque gradi all'ombra.
Poi venne il periodo dei peperoncini piccanti ripieni. Mia madre pulì una gran quantità di peperoni senza guanti con il risultato che dovette passare il resto della giornata con le mani immerse in acqua e ghiaccio per cercare di lenire il bruciore causato dai diabolici ortaggi.
Il periodo dei gelati fatti in casa, ma non con la gelatiera. Erano buonissimi i gusti melone, limone e cioccolato e ne mangiavamo a chili.
E venne il periodo della Torta delle Rose, con grande entusiasmo al momento del primo assaggio a torta ancora calda, seguito da terribile delusione il giorno seguente, quando il dolce sembrava aver assunto le caratteristiche del pane raffermo.

In rete si trovano molte versioni della torta, io ho preso un po' qua e un po' là  adattando la ricetta alle mie esigenze, aggiungendo l'uvetta, cuocendo infine il dolce nel fornetto Versilia.
La preparazione è piuttosto lunga a causa dei tempi di lievitazione.

Preparazione del "lievitino":


mescolare 1 bustina di lievito di birra, 50 g di farina, 1 cucchiaino di zucchero, 1 tazzina  d'acqua tiepida, impastare e lasciare lievitare per 40 minuti in una ciotola coperta con pellicola.

Ingredienti per la pasta:

350 g di farina 00
80 g zucchero
50 g di burro morbido
 1 uovo
 120 ml di latte
 1 pizzico di sale
 1 cucchiaio di miele
 aroma vaniglia
 scorza di mezza arancia biologica

Farcitura: mescolare 120 g di burro morbido a 120 g di zucchero (di canna) fino a creare una crema. Ammollare qualche manciata di uvetta e asciugarla poi dall'acqua in eccesso.

Preparazione: dopo che il lievitino ha raddoppiato il suo volume, unirlo agli altri ingredienti aggiungendo il latte poco a poco. Formare una palla liscia e morbida, porla in una ciotola coperta con pellicola e lasciare lievitare per almeno 1 ora e mezza.
Quando la pasta è lievitata stenderla in forma rettangolare su una spianatoia.



Spalmare  la crema sull'impasto e cospargere d'uvetta.


Arrotolare l'impasto e tagliarlo in pezzi di uguali dimensioni da disporre poi nella teglia un poco distanziati l'uno dall'altro. Una volta cotti, la loro forma ricorderà i boccioli di rosa.



Lasciar lievitare i "boccioli" per altre due ore, coperti, in luogo tiepido.


Infine cuocere in forno a 170° per circa 30 minuti; io, un'ora e mezza nel fornetto Versilia.

Per la conservazione non ho avuto particolari problemi, visto che è finita in appena due giorni! In ogni caso, basta riscaldare qualche minuto i "boccioli" prima di mangiarli per colazione, come ho fatto io!


A presto


G.





lunedì 3 ottobre 2016

Un premio per Oltremare


Che nei mesi estivi non sia stata molto attiva sul blog è un fatto, ma veramente la sbadataggine rischia  spesso di farci passare per ingrati e maleducati, anche quando non lo siamo. Per una volta che qualcuno si ricorda di me e mi assegna un premio (in tre anni e mezzo mai successo) io non me ne accorgo se non quattro mesi dopo!
Quindi ringrazio la gentilissima Marilena del blog Lo Schiaccianoci
che me lo ha assegnato e mi attiverò per scoprire che cosa comporta questo premio. Dalle informazioni reperite, ho capito che dovrò nominare dei blog ai quali assegnare a mia volta il premio e porre ai loro autori una sfilza di domande... Uhm... mi sembra un po' impegnativo, soprattutto nel caso di chi ricevesse il premio, ma avesse poco tempo per rispondere e fare poi la stessa cosa con altri blog. Credo che semplificherò.
Marilena, anche lei ha scelto di semplificare la procedura, chiede ai premiati di pubblicare un'immagine rappresentativa insieme ad una frase o una citazione... Non è semplice decidere tra le innumerevoli immagini che mi affascinano e le tante citazioni che mi vengono in mente, pensando ai libri che ho letto e che mi hanno arricchita. Devo rifletterci un po' su.
Penserò anche ai blog da premiare e prossimamente pubblicherò tutto in un post.

Grazie ancora, Marilena!



G.